Quali i criteri distintivi fra attività di exchange soggetta a comunicazione e proposta di investimento finanziario soggetta al T.U.F. – le conseguenze penali in caso di abusivismo.
La recentissima pronuncia della Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 44387/22 del 26 ottobre 2022) ha il pregio di avere chiarito - seppur incidentalmente, decidendo una questione di natura cautelare - come la vendita di valuta virtuale (c.d. cryptocurrencies), fra cui il BITCOIN rappresenta quella oggi certamente più nota - possa essere considerata a tutti gli effetti uno «strumento di investimento»e non invece un «mezzo di pagamento» laddove l’operazione che ne presuppone l’impiego sia caratterizzata da un capitale iniziale, un rendimento atteso o promesso ed un rischio.
La vicenda trae origine dal diniego con cui prima il GIP di Brescia, poi il Tribunale del Riesame della stessa città avevano negato il sequestro preventivo richiesto dal Pubblico Ministero del wallet (portafoglio) contenente 30 bitcoin oggetto, a parere dell’organo inquirente, del delitto di cui all’art. 648 ter 1 C.P. in relazione al delitto presupposto di esercizio abusivo dell’attività finanziaria, punito dall’art. 166 T.U.F. .
I giudici della cautela e del riesame avevano in particolare escluso che la c.d. Initial Coin Offering, alla quale era riconducibile la contestazione legata all’avvio di nuove start up, potesse essere ricompresa nelle ipotesi necessariamente tipizzate di esercizio abusivo dell’attività finanziaria di cui all’art. 1 comma 5 TUF[1] in assenza di ulteriori accertamenti di natura tecnica.
La Corte di Cassazione ha al contrario accolto il ricorso del Pubblico Ministero per violazione di legge attraverso la ricostruzione del sistema normativo sotteso alle cryptovalute.
La c.d. moneta virtuale è stata infatti definita dalla Direttiva UE 2018/843/UE del 30 maggio 2018 come una rappresentazione di valore digitale che, seppur accettata come mezzo di scambio anche elettronico, non è necessariamente emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata ad una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o moneta.
Si tratta di una pseudo-definizione, data “in negativo” ed utile, dunque, a chiarire più cosa “non sia una valuta digitale” che non a delinearne le caratteristiche. Già nei considerando della medesima Direttiva, tuttavia, si aggiunge che le valute virtuali, sebbene possano essere utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio quali mezzi di scambio, di investimento, di riserva di valore o essere utilizzati in casinò on line.
La definizione data dal nostro legislatore alla valuta virtuale costituisce in realtà un quid pluris rispetto alla normativa comunitaria, risultando una sorta di crasi fra la definizione “in negativo” ed i considerando di cui si è detto. Il D. Lvo 231/2007, modificato dal D. Lgs 125/2019, lettera qq) afferma infatti che la moneta virtuale è “la rappresentazione digitale di valore non emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale” – fin qui la definizione “in negativo” – “utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
Rispetto alla normativa comunitaria la finalità di investimento assurge dunque, nella definizione data dal legislatore nazionale, a vero e proprio elemento normativo e non a premessa interpretativa del testo giuridico.
Quanto alle qualifiche soggettive ed alle abilitazioni, allorquando la moneta virtuale è impiegata, al pari della “moneta corrente” o analogica, in operazioni di Exchange – cioè di scambio, acquisto e vendita al fine di profitto e non di investimento – i prestatori di servizi non abbisognano in realtà di autorizzazione dovendo essere solamente iscritti in un apposito registro tenuto presso l’OAM [ndr: Organismo competente in via esclusiva ed autonoma per la gestione degli elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi], con l’obbligo di comunicare l’inizio dell’attività al Ministero dell’Economia.
Si comprende bene come gli adempimenti previsti in questo caso siano molto più semplici e diversamente sanzionati, in caso di abuso, rispetto alle attività di intermediazione finanziaria.
La Corte di Cassazione ha quindi ricostruito le regole sottese all’utilizzo delle criptovalute quale strumento di investimento e soprattutto il criterio o i criteri distintivi in grado di distinguere le operazioni di Exchange dalle vere e proprie proposte di investimento, come tali soggette agli adempimenti di cui all’art. 91 T.U.F. a salvaguardia degli investitori, della efficienza e trasparenza del mercato e del controllo societario.
E ciò in quanto laddove lo scambio di valute digitali avvenga in realtà sotto forma di “proposta di investimento”, l’assenza di abilitazioni – in questo caso necessarie - determinerà anche la violazione dell’art. 166 T.U.F. che punisce appunto l’abusivismo finanziario.
Poste queste premesse la Corte di Cassazione ha rinvenuto nell’attività economico-finanziaria oggetto del procedimento i tre caratteri distintivi dell’investimento di tipo finanziario e non dell’attività di exchange così come ricostruiti dalla Sentenza del Tribunale di Verona del gennaio 2017 ivi espressamente richiamata, ovvero a) l’impiego di capitali propri, di natura virtuale o analogica; b) una aspettativa di rendimento e c) un rischio connesso all’utilizzo dei capitali.
Nel caso di specie poiché tutte e tre i suddetti criteri dovevano ritenersi integrati nell’attività svolta dall’indagato, l’esercizio di servizi o attività di investimento in assenza di specifiche autorizzazioni avrebbe potuto integrare l’ipotesi di abusivismo di cui all’art. 166 T.U.F. ed il reinvestimento dei capitali versati in Bitcoin per aderire all’investimento avrebbe così potuto integrare il reato di cui all’art. 648 ter 1 C.p. . Con il conseguente annullamento dell’Ordinanza resa dal Tribunale del riesame di Brescia per nuovo esame alla luce di questi principi.
*§*
La Sentenza in commento non afferma dunque tout court che l’attività di scambio di moneta virtuale costituisca sempre “attività di investimento” ai sensi dell’art. 1 comma 5 T.U.F., come tale soggetta agli stretti perimetri disciplinati dal Testo Unico Finanza nonché alle sanzioni ivi previste in caso di abusivismo, dovendosi avere riguardo a tale fine ai criteri distintivi individuati dalla Giurisprudenza di merito e fatti propri dalla Suprema Corte.
Laddove, tuttavia, il capitale sia utilizzato con una aspettativa di rendimento ed un conseguente rischio, indipendentemente dall’entità di quest’ultimo, lo scambio di bitcoins potrà integrare a tutti gli effetti una vera e propria proposta di investimento, con il rischio di incorrere, in caso di omissione dei relativi obblighi (artt. 94 ss. Testo Unico sulla Finanza), nel reato previsto dall’art. 166, co.I, lett. c), T.U.F, che punisce chiunque «offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento».
Avv. Matteo Casalini e Dott.ssa Ylenia Liverani
[1] L’Art. 1 comma 5 T.U.F. recita: 5. Per "servizi e attività di investimento" si intendono i seguenti, quando hanno per oggetto strumenti finanziari:
a) negoziazione per conto proprio;
b) esecuzione di ordini per conto dei clienti;
c) assunzione a fermo e/o collocamento sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell'emittente;
c-bis) collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell'emittente;
d) gestione di portafogli;
e) ricezione e trasmissione di ordini;
f) consulenza in materia di investimenti;
g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione;
g-bis) gestione di sistemi organizzati di negoziazione.
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