IL REATO DI ESERCIZIO ABUSIVO DI UNA PROFESSIONE IN AMBITO SANITARIO

04 novembre 2022

L’abusivismo professionale è un fenomeno penalmente sanzionato dall’art. 348 del Codice penale, che punisce con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni, oltrechè della multa da 10.000 € a 50.000 €, chiunque eserciti ‘abusivamente’, ossia sine titulo, una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.

Si tratta di una norma penale «in bianco», in quanto per determinarne l’esatto contenuto precettivo è necessario far riferimento, per ciascuna professione che viene in rilievo, alle specifiche fonti che diciplinano l’attività oggetto di abilitazione statale e l’abusività del loro esercizio.

Sul piano generale, secondo costante orientamento di legittimità, la natura abusiva e, quindi, illecita dell’esercizio di una determinata attività professionale, si configura non soltanto in mancanza del prescritto titolo autorizzativo, ma altresì quando il professionista, sebbene abilitato, non risulti iscritto al relativo albo, registro o ordine. Di conseguenza, risponderà del reato di esercizio abusivo di una professione anche colui che agisca in costanza di sospensione o interdizione dall’esercizio della professione ovvero quando l’iscrizione all’albo o registro sia altrimenti decaduta.

Trattasi di incriminazione che risponde all’esigenza di tutelare l’interesse generale a che determinate attività professionali, cd. «protette» e «riservate», siano poste in essere esclusivamente da soggetti che, risultando in possesso dei prescritti requisiti, siano a ciò abilitati e per ciò iscritti, sì da garantire l’affidamento della collettività nel possesso di adeguate competenze tecniche e morali da parte del professionista, nonché il corretto esercizio della professione sanitaria.

A tale finalità, si affianca quella di salvaguardia del bene primario della salute, individuale e collettiva, laddove oggetto di illegittimo esercizio sia una professione sanitaria. Del resto, nei repertori giurisprudenziali è proprio la pratica medica ed odontoiatrica, oltrechè quelle pratiche relative alle altre professioni sanitarie, a costituire il focus della stragrande maggioranza delle sentenze afferenti il delitto di esercizio abusivo di una professione.

Non è pertanto un caso che l’art. 348 Codice penale, sebbene applicabile in relazione a tutte le professioni che richiedono una speciale abilitazione, sia stato novellato nell’ambito di più ampio intervento di riforma delle professioni sanitarie, in particolare dalla Legge del 11 gennaio 2018, n. 3, rubricata «Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della Salute».

L’intervento riformatore, oltre ad innalzare, nei termini anzidetti, le pene edittali per il reato in parola(che prima era punito meno gravemente con la reclusione fino a sei mesi o, in alternativa, con la multa fino a 516 €), ha ulteriormente inasprito il trattamento sanzionatorio e ablativo prevedendo, oltre alla sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna, anche la confisca delle cose funzionali a commettere il reato (come, a titolo esemplificativo, l’immobile adibito a studio professionale del ‘finto’ medico  che, sulla scorta del nuovo art. 86-ter delle Disposizioni attuative del Codice di procedura penale, dovrà essere trasferito al patrimonio del Comune in cui è sito per essere destinato a finalità sociali o assistenziali).

Inoltre, per i casi in cui il soggetto che ha commesso il delitto previsto dall’art. 348 c.p. eserciti regolarmente una professione o attività, è altresì prevista la trasmissione della sentenza di condanna al competente ordine, albo o registro, ai fini dell'applicazione dell'interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata.

Viene infine introdotta una ulteriore aggravante a carico del professionista in possesso dei prescritti requisiti per l’esercizio della professione, punendolo con la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 15.000 € a 75.000 €,   allorquando sia costui a determinare altre persone a commettere il reato o a dirigere l’attività dei compartecipi nel reato viceversa privi di abilitazione.  Pertanto, risponde a titolo di concorso nel delitto di esercizio abusivo della professione aggravato, il professionista abilitato il quale agevoli lo svolgimento di attività professionale da parte di persona non autorizzata, consentendo, ad esempio, l'uso della propria struttura, o la copertura formale firmando documentazione medica, etc. (Cass. penale VI, sentenza n. 13170/2012; Cass. penale VI, sentenza n. 18154/2012).

L’assetto sanzionatorio oggi previsto e così ricostruito, se comparato a quelli delineati dagli altri Stati d’oltralpe, rende la diciplina italiana in materia di esercizio abusivo della professione quella più severa in Europa (basti pensare che negli ordinamenti giuridici tedesco e portoghese lo stesso reato è punito con pena pecuniaria di entità modesta e alternativa, quindi non aggiuntiva, a quella detentiva).

Venendo agli elementi costitutivi dell’illecito penale, quest’ultimo resta, anche a seguito della riforma, reato avente natura istantanea, per la cui configurazione è sufficiente la commissione anche di un solo atto relativo alla professione, nella specie sanitaria, reso anche a titolo gratuito, purchè compiuto con dolo generico, ossia con la volontà di porre in essere l’attività con la consapevolezza dell’assenza dei requisiti per il legittimo esercizio della professione, e cioè dell’abilitazione e dell’iscrizione al relativo albo professionale. Ne deriva la totale irrilevanza, ai fini dell’eseclusione della responsabilità, tanto della perizia, capacità e abilità del soggetto privo dei prescritti requisiti, quanto della eventuale correttezza dei giudizi tecnici espressi e dell’esito positivo delle cure praticate.

Più problematica è viceversa l’individuazione degli atti il cui compimento da parte di un soggetto abusivo dà corpo all’incriminazione, specie qualora, come nel caso delle attività degli esercenti le professioni sanitarie, e segnatamente dei medici, manchi una definizione legislativa dell’atto medico.

Non essendo infatti rinvenibile nell’ordinamento giuridico nazionale una definizione, espressa e univoca, dei contenuti tipici dell’attività medica, i giudici hanno optato per criteri sostanzialistici, che valorizzano la specificità e la delicatezza dell’attività professionale sanitaria, limitandosi ad agganciare la legittimazione dell’esercizio professionale al superamento del relativo esame di Stato e alla conseguente iscrizione all’albo e/o ordine.

Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte, oltre al «compimento senza titolo, anche  se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione», integra il reato in questione «anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato» (SS.UU., sentenza 15.12.2011, n. 11545).

In base a tale interpretazione, ricadono nell’oggetto della tutela non soltanto gli atti tipici riservati in via esclusiva alla specifica professione, il cui compimento da parte di soggetto non abilitato integra ex se il reato di cui all’art. 348 c.p., ma anche gli atti strumentalmente connessi agli atti riservati, purché compiuti in modo organizzato, continuativo e remunerato. In tal caso la condotta, per essere ritenuta punibile ai sensi dell’art. 348 c.p., deve essere posta in essere con le oggettive apparenze di un legittimo esercizio professionale, perché solo a questa condizione, in presenza di atti non riservati per se stessi, si violail principio della generale riserva riferita alla professione in quanto tale, con correlativo tradimentodell’affidamento dei terzi.  Ne consegue che quando tali apparenze mancano, sia perdifetto di abitualità, organizzazione o remunerazione, sia perché il soggetto agente esplicitiin modo inequivoco che egli non è munito di quella specifica abilitazione e opera in forza dialtri titoli o per esperienza personale comunque acquisita, si è fuori dell’ambito di applicazionedell’art. 348 c.p.

Applicando i suindicati principi interpretativi ai casi pratici già decisi, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare come rientrino tra le attività di competenza di professionisti abilitati la diagnostica (tra le tante, Sez. VI, n. 29667 del 08/03/2018), l'attività di colui che fornisce indicazioni alimentari personalizzate (Sez. 6, n. 20281 del 30/03/2017), l'agopuntura (Sez. 6 n. 22528 del 27/03/2003), i massaggi terapeutici (Sez. 6, n. 13213 del 15/03/2016), la rimozione del tartaro con lucidatura delle arcate dentarie (Sez. 6, n. 4294 del 12/12/2008 ), l'utilizzo di terapia laser-percutanea (Sez. 6, n. 30068 del 02/07/2012 ), le consulenze per problemi caratteriali e relazionali, sostenute da percorsi terapeutici, sedute, colloqui e pratiche ipnotiche (Sez. 2, n. 16566 del 07/03/2017), il commercio di farmaci e sostanze dopanti (Sez. 3, n. 19198 del 28/02/2017, Forti, Rv.26993601), la chiropratica (Sez. 6 n. 30590 del 10/4/2003, Bennati, Rv. 2256801).

Con particolare riguardo all'attività medica, sono state ritenute attività tipiche della professione la diagnosi, la profilassi e la cura, intesa come indicazione dei rimedi diretti ad eliminare le patologie riscontrate ovvero a ridurne gli effetti.

Sono invece state conseguentemente escluse dall’attività medica, la misurazione della vista e la predisposizione di lenti correttive nei casi di miopia e di presbiopia, purchè in assenza di valutazioni di carattere diagnostico o terapeutico (Sez. 6, n. 40745 del 23/06/2016), la depilazione con gli aghi (Sez. 6, n. 507 del 26/03/1968), la misurazione della pressione arteriosa non seguita da giudizio diagnostico (Sez. 6, n. 1671 del 27/11/1968), lo svolgimento dell'attività di massaggiatore a scopo non terapeutico (Sez. 6, n. 12539 del 12/02/2020), la realizzazione di tatuaggi (Sez. 6, n. 2076 del 29/05/1996).

Di recente, con riguardo alla condotta di colui che, lasciando intendere di essere dermatologo, rimuova tatuaggi mediante luce pulsata, la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato il reato di esercizio abusivo della professione medica, considerato che sono atti medici, non soltanto quelli diretti alla diagnosi e la cura di una patologia, ma altresì gli interventi che mirano all'eliminazione di un inestetismo per il tramite di tecniche chirurgiche o da eseguirsi in anestesia, tra cui l'attività di rimozione di un tatuaggio, a nulla rilevando che la tecnica impiegata nel caso concreto (peraltro inadeguata) non sia atto ex se riservato al medico (Sez. IV, 23/06/2021, n.28174).

Avv. Giorgia Galli

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